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La lingua madre

Neonato sorridente

Perché si dice “mamma” e “papà” in quasi tutte le lingue del mondo?

Se anche tu sei appassionato/a di lingue e ne hai studiate alcune, avrai sicuramente notato che i termini “mamma” epapà” si assomigliano in diverse lingue del mondo. “Mutter”, “mother”, “mama”, “mom”, “mamă” sono, per esempio, termini di lingue che appartengono alla famiglia delle lingue indoeuropee e per forza di cose si assomigliano, poiché hanno un’origine comune. Ma questa teoria sembra non essere soddisfacente per spiegare la somiglianza con termini di lingue molto più lontane, come per esempio lo swahili africano, in cui troviamo “mama” e “baba”.

Ahimè, forse non c’è niente di romantico…

Pare che sia stato il linguista Roman Jakobson (1986-1982) ad intuire il motivo per cui i termini “mamma” e “papà” siano universali attraverso le lingue e non siano mai stati modificati nel corso del tempo, come al contrario avviene per molte altre parole della nostra lingua. Sembra infatti che alla fine degli anni 50 del secolo scorso, questo studioso sia stato il primo ad associare questi termini alle prime articolazioni fonetiche dei neonati, quando si cimentano nelle prime “prove” di parlato.

Uno dei primi suoni che i neonati producono è il suono “aaa”, che viene vocalizzato per primo proprio perché risulta essere il più semplice da pronunciare da un punto di vista meccanico: basta aprire la bocca e far uscire aria. Poiché le pause tra un suono e l’altro sono spesso realizzate, come accade agli adulti, dal suono “mm”, risulta evidente come sia piuttosto semplice per un neonato pronunciare la combinazione dei due suoni “m” e “a”.

Questo suono ripetuto “ma-ma” viene interpretato da chi accudisce il bambino come la parola: “mamma”. Lo so, c’è poco di romantico in tutto questo, ma effettivamente è l’adulto a dare un valore semantico a questi suoni, quindi un significato ben preciso. Perché in realtà i bambini stanno solo giocando con la bocca per scoprire i suoni che riescono a pronunciare.

In un secondo momento, il neonato comincia ad emettere altri suoni e tra questi prova a pronunciarne uno sulla base di quello che ormai ha acquisito. Quindi a labbra chiuse pronuncia il fonema (il suono) “mm” e dopo alcuni tentativi scopre di poter dare vita ad un suono “esplosivo” come “p” o “b”, definiti appunto fonemi plosivi (o occlusivi), generati dal rilascio improvviso dell’aria dopo averla bloccata a livello della bocca. Perché questo suono viene associato al padre? Sembra che la spiegazione più logica sia il fatto che, generalmente, lui è la seconda persona che accudisce il bambino insieme alla madre.

Attenzione, però!

I termini “lingua materna”, “lingua madre” e “madrelingua” non devono indurci a pensare che la madre del bambino abbia necessariamente un ruolo privilegiato nell’acquisizione e nella trasmissione del linguaggio, sebbene ciò sia molto frequente. In alcune società tradizionali, per esempio, in cui i genitori provengono da culture diverse, la moglie si trasferisce a casa del marito o nel villaggio in cui vive per integrarsi, e può capitare che lei stessa abbia una lingua nativa differente dalla lingua locale parlata dalla famiglia del coniuge: questa lingua diventerà solitamente la principale lingua nativa dei figli, sebbene possano naturalmente apprendere anche l’idioma materno.

Questa pratica è spesso radicata in norme patriarcali e credenze culturali sui ruoli di genere e sulle responsabilità. In molte comunità rurali dell’Africa occidentale, come in Nigeria, è consuetudine per le donne trasferirsi nel villaggio del marito dopo il matrimonio. In alcune parti dell’Africa orientale, come Kenya e Tanzania, alle donne che sposano persone appartenenti a tribù o gruppi etnici diversi viene richiesto di adottare la lingua e lo stile di vita del marito. Questo succede anche il alcune zone rurali dell’India, in molte comunità in Tailandia, in Vietnam e in Kazakistan: alle donne che sposano persone appartenenti a gruppi etnici diversi viene richiesto di imparare la lingua del marito e integrarsi nella sua famiglia e comunità.

Nelle espressioni come lingua materna e madrelingua, quindi, la maternità dovrebbe essere principalmente intesa in senso metaforico (madre come “fonte, origine”), come nel termine “madrepatria”.

Un termine ambiguo…

L’uso del termine “lingua madre” nel senso di “lingua nativa” è piuttosto frequente e viene impiegato anche da autorevoli linguisti; tuttavia, tale espressione è considerata da molti altri potenzialmente ambigua.

Innanzitutto viene considerata discriminatoria nei confronti del padre e troppo carica emotivamente. In secondo luogo, dà per scontato che sia unica ed esclusiva, che ci sia una sola lingua e che la normalità sia possedere un solo idioma.

Questo contrasta fortemente con la situazione di multilinguismo, in cui più lingue vengono utilizzate da bambini e adulti in diversi contesti e con diverse persone e, quindi dal lato pratico, i bambini possono avere più lingue madri. Usare termini come “lingua madre”, “prima lingua”, “seconda lingua” eccetera, implica necessariamente una separazione e una gerarchia, in forte contrasto con gli studi di neurolinguistica che dimostrano che tutte le lingue sono attive contemporaneamente nel nostro cervello, quasi a formare un unico repertorio linguistico.

É importante ricordare che le scelte terminologiche possono avere conseguenze per noi stessi e per gli altri, per esempio per i parlanti di una comunità linguistica o per gli studenti di lingua, e come ricercatori ed educatori è nostro compito esaminare attentamente e criticamente i termini e i concetti che costituiscono gli strumenti del nostro lavoro. Dovremmo chiederci: fino a che punto tali termini limitano o espandono le opportunità e le potenzialità dei soggetti ai quali si riferiscono? Quali orientamenti di pianificazione linguistica mettiamo in pratica sulla base di particolari terminologie e concetti? Quali interessi servono? Possiamo utilizzare questi termini, questi strumenti, in modo strategico come termini di giustizia sociale che rispettano e promuovono i diritti inguistici?

Ti lascio riflettere.

Ma insomma, cos’è la lingua madre?

Chiedi a chiunque quale sia la sua lingua madre e avrai risposte differenti a seconda del vissuto e della biografia linguistica della persona che hai davanti. Rispondere a questa domanda è molto semplice per un parlante monolingue: anche se questa persona parla una seconda lingua, perché per esempio l’ha studiata in contesto scolastico, saprà definire con chiarezza qual è la sua lingua madre.

Ma se questa persona si sposta da bambino o da molto giovane in un altro paese in cui si parla una lingua diversa, i criteri popolari che descrivono il concetto di “lingua madre” non sono più validi e quindi egli si trova di fronte al compito di dover decidere se la sua lingua madre è la lingua che ha imparato per prima o la lingua che conosce meglio.

Ho parlato di questo tema anche durante l’intervista alla Dottoressa Francesca La Morgia, fondatrice di “Mother Tongues” e abbiamo discusso inoltre le principiali difficolta che una famiglia espatriata o immigrata si trova ad affrontare quando cresce i figli in un contesto monolingue.

Se non hai visto l”intervista, ti invito a cliccare subito il link qui sotto, noterai che è un’intervista che emoziona, perché parliamo di casi concreti e quotidiani di “vita vissuta” nel multilinguismo.

A questo punto è evidente che il concetto di lingua madre è molto complesso e multi-fattoriale, generalmente intrecciato tra cinque diversi criteri, vediamoli insieme:

  1. Il primo criterio è quello temporale (la lingua appresa per prima o prima del periodo critico di circa 8 anni) è considerata la lingua madre o prima lingua.
  2. Il criterio della dominanza funzionale (la lingua usata di più e che corrisponde a più funzioni), detta anche lingua dominante.
  3. Il criterio della competenza (la lingua in cui il parlante è più fluente) definisce la lingua con le competenze più avanzate, ma presenta un problema di valutazione. Qual è il modo migliore? Affidarsi al quadro europeo di riferimento per la valutazione delle competenze linguistiche?
  4. Il criterio emotivo (la lingua usata in situazioni di forte coinvolgimento emotivo, la lingua a cui sono più legato/a) potrebbe essere la lingua preferita.
  5. Il criterio di identificazione socioculturale (la lingua della cultura in cui il parlante si sente più coinvolto, la lingua che rappresenta l’identità culturale), in alcuni contesti chiamata anche “lingua etnica” o “lingua ereditaria”. L’identificazione può essere interna (mi identifico con quella lingua) o esterna (sono identificato come madrelingua di quella lingua dagli altri).

In ambito scolastico, si potrebbe affermare che la lingua madre di un alunno, la sua lingua dominante, è quella che conosce meglio, ma non è necessariamente la lingua che il bambino ha scelto, bensì probabilmente la lingua in cui viene scolarizzato, che deve imparare per forza. Forse, lo stesso bambino non ha la possibilità di utilizzare costantemente e di perfezionare la lingua di famiglia.

Un altro elemento di complessità, riguarda le minoranze linguistiche. In questo caso, la lingua maggioritaria diventa generalmente anche la lingua più usata e, poiché non sempre questo rispecchia una libera scelta, non sembra corretto utilizzare una definizione di lingua madre in base alla funzione (criterio 2), perché non rispetta i diritti linguistici, in particolare il diritto di scegliere liberamente quale sia la propria lingua madre.

Inoltre, in questi contesti, la lingua maggioritaria diventa spesso la lingua che si conosce meglio nella maggior parte degli ambiti formali, quindi anche il terzo criterio, quello di competenza, non sarebbe corretto. Forse nel caso delle minoranze linguistiche, una combinazione di diversi criteri e definizioni potrebbe essere un buon compromesso.

A questo proposito è stato molto interessante scoprire alcuni dettagli familiari del Professor Luca Melchior durante l’intervista su “Il bilinguismo nascosto: il caso del friulano”, che puoi rivedere qui sotto.

“Certo la lingua della scuola è importante, ma questo non significa che le altre lingue non possano avere uno spazio nella scuola italiana. Purtroppo l’ideologia del monolinguismo è rimasta e molto spesso, anche se non sempre, queste lingue vengono nel migliore dei casi non viste, nel peggiore dei casi osteggiate. In realtà sono delle risorse preziosissime, anche per giungere alla lingua d’istruzione.” – Prof. Luca Melchior

Riassumendo

Di questi criteri, solo il primo non può essere modificato in quanto collegato all’aspetto concreto del tempo e inoltre, sembra permettere un’identificazione piuttosto chiara: determinare a quale età è avvenuto il primo contatto con tale lingua sembra piuttosto semplice.

Le altre dimensioni possono cambiare nel tempo e sono difficili da identificare. Infatti, mentre il primo criterio è puramente cronologico, gli altri sono psicologici. Questi criteri sembrano complicare la questione piuttosto che risolverla, poiché rappresentano aspetti diversi della competenza bilingue nel singolo parlante. Forse vale la pena chiedersi: è veramente così importante sapere qual è la nostra lingua madre? La lingua madre del bimbo appena arrivato nella nostra classe? Quella dei nostri figli che stanno crescendo all’estero?

E tu come classificheresti le tue lingue in base a questi cinque criteri (temporale, funzionale, di competenza, emotivo e socioculturale) e qual è la tua “lingua madre”?

Se sei cresciuto/a in un contesto monolingue, probabilmente ti sarà facile stabilire quale sia la tua lingua madre.

Se sei cresciuto/a con due o più lingue, qual è la lingua con cui ti senti più a tuo agio? E la lingua che usi di più nel contesto lavorativo, nei rapporti con la famiglia o con gli amici?

Sono curiosa di leggerti qui sotto nei commenti! 😉

Karin

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